Molti amici lo hanno chiesto, per questo si pubblica il diario del viaggio missionario nel Bénin
di Mariagrazia Magrini
Giorni intensissimi e disagi hanno lasciato un po’ di stanchezza fisica e qualche lieve disturbo, ma come dimenticare lo sguardo e le espressioni di affetto sincero di tutti: dai bambini alla gente? Povertà estrema, ma tanto, tanto amore. Liturgie meravigliose, preparate accuratamente;
fede profonda e rispetto per Dio e per chi lo rappresenta.
Quale lezione per noi… Popolazione buona, mite che purtroppo viene aiutata in minima parte; desiderio di «crescere».
Il nostro dare è solo una piccola goccia, ma goccia dopo goccia si forma l’oceano.
«Mamie non andar via, ritorna…», gridavano i piccoli (e non); col cuore sono lì e, come vorrei aver potuto fare di più.
Sicuramente, si potrà fare di più: ci aiuti Chiara, così venerata e invocata.
Un ricordo va al Gruppo dell’Associazione Un pozzo per la vita di Merano con cui ho condiviso parte del soggiorno, ai vescovi del luogo che mi hanno accolta con affetto e stima; a tutti, uno per uno. Confido su di voi, amici: non abbandoniamoli. L’Amore vero non è fatto di parole, ma di gesti concreti. Ora la diocesi di Acqui ha un posto in più in Africa e si onora nei suoi Santi!
Ed eccoci a ripercorre insieme il viaggio: da domenica 23 ottobre a lunedì 7 novembre 2016
Dopo essere partita alle 06.25 con il volo Torino – Parigi, alcune ore dopo ho potuto incontrarmi con il gruppo di amici giunti da Merano, Padova e Milano. Ripartiti alle 14.30, sempre con l’Air France, siamo giunti a Cotonou (ab. 700.000) alle 19.45 (ore locali).
Passeremo la prima notte e le ultime due nelle camere della CEB (Conferenza Episcopale Beninese).
L’impatto è faticoso: caldo umido, smog per le vie sterrate percorse da migliaia di motorini; scene di povertà estrema –dignitosa e pacifica– ma l’amore che ci spinge e la fraternità creatasi subito tra di noi, ci sostiene e ci reggerà sino alla fine.
In quel momento come non ripensare alle parole rivolte dalla Beata Chiara a un conoscente spaventato perché in partenza per l’Africa:
«Tu vai, io sarò là con te!»?
Da Cotonou ad Agrimé per visitare questo villaggio in cui il gruppo Un pozzo per la vita ha costruito la torre dell’acqua: elemento vitale, preziosissimo. L’accoglienza –d’altronde come sempre sarà– è gioiosa. Una vera carezza al cuore!
Bohicon, mercoledì 26 ottobre: visita alla parrocchia S. Francesco d’Assisi con passaggio attraverso la Porta Santa e saluto al Consiglio Pastorale.
Giovedì 27 ottobre: Visita al «nostro» Centro «Chiara ‘Luce’ Badano»
Dassa, venerdì 28 ottobre: mattinata e pranzo con i Vescovi, incontro «illuminato» dall’esempio di Chiara e dal ricordo dell’operato di Mons. Maritano. In casa, serata festosa con le novizie a suon di tamburo e danze in preparazione alla festa della Beata.
Bohicon (Ayiwémé), sabato 29 ottobre: festa liturgica nella chiesa succursale già intitolata alla Beata, in unione con tutti coloro che in vari luoghi l’hanno ricordata in preghiera e con varie iniziative.
30 ottobre: con grande gioia mi reco nuovamente a Sogbo Aliho (vicino Abomey nel sud del Benin) presso il Centro Chiara Luce Badano per vivere una giornata con i «nostri» bambini. Mattinata aperta con la S. Messa nella cappella «Chiara Luce» a cui hanno partecipato tutti i bambini che frequentano le «nostre» scuole. Sono state ore di gioia grande; li ho lasciati col cuore ferito dalle loro lacrime.
Lunedì 31 ottobre: Con un viaggio faticoso, accompagnata da Mons. Assogba si giunge a Houèdo dove fu costruito il primo dispensario per volontà dell’allora Arcivescovo di Cotonou. Accoglienza sempre festosa; S. Messa con parole sull’amore della Beata Chiara; visita del dispensario e condivisione conviviale.
La giornata ha preparato gli animi alla grande festa di Tutti i Santi.
Martedì 1° Novembre, festa di Tutti i Santi, ore 10: S. Messa solenne nella chiesa parrocchiale intitolata a S. Francesco d’Assisi, in Bohicon. Come in tutto il Bénin, nonostante i cattolici siano la minoranza, per ogni celebrazione eucaristica la partecipazione dei fedeli è molto alta: presenziano almeno un migliaio di persone.
Molti i bambini, pienamente coinvolti nonostante la non brevità delle funzioni, animate da danze, canti in gregoriano, francese e fon (lingua locale), con una liturgia preparata con precisione e ardore. Si può forse non “viverla” e non restare “spettatori”?
La S. Messa era stata preceduta dalla visita al Centro pastorale parrocchiale,
la cui costruzione era stata iniziata, ma malauguratamente sospesa per mancanza di mezzi!
Il giorno seguente, 2 novembre, ricordo di tutti i defunti, dopo il pranzo col Vescovo di Abomey, ho potuto visitare il Centro diocesano di spiritualità.
L’incontro previsto con la popolazione dell’isola di Bamé (molto povera, ma serena e con tanti bimbi) è stato tardato da un forte temporale per cui si è partiti al tramonto.
Il viaggio, non breve e su una rudimentale barchetta, in un silenzio irreale, ci ha accompagnato lungo il tragitto, purtroppo il buio non mi ha permesso di ammirare né il luogo né la natura: ci siamo mossi con le torce…; l’esperienza è stata unica!
Giovedì 3 Novembre: termina il soggiorno nella comunità di Mons. Assogba. Dopo aver salutato Mons. Assogba, suor Valérie e le novizie, mi riunisco al gruppetto con cui sono partita dall’Italia.
Meta? L’Oceano Atlantico: raggiungere il Grand Popo (dal portoghese Pescatore), al confine col Togo.
Venerdì 4 novembre, percorrendo la via del mare, giungiamo a Quidah.
Eccone brevemente la storia. Ouidah fu tra il XVII e il XIX secolo uno dei principali empori dell'Africa occidentale per la tratta degli schiavi. Da questa città partì più di un milione di africani per essere scambiati con prodotti vari: alcol, stoffe, bracciali, coltelli, spade e soprattutto armi da fuoco, periodo di più grande traffico di schiavi nella storia della tratta negriera. Un commercio fiorente, quello con gli europei, che fece diventare presto il Regno di Abomey uno dei più ricchi e potenti, fino alla colonizzazione francese. La vendita veniva organizzata nella piazza Chaha, con “l’asta degli schiavi”, durante la quale gli europei si contendevano la manodopera africana a suon di offerte e rilanci, per aggiudicarsi gli elementi più validi. Non si pagava in denaro, ma gli schiavi venivano scambiati con oggetti e beni preziosi: uno specchio, ad esempio, per una cinquantina di schiavi; i bambini erano dati gratis e seguivano le madri. Gli acquistati venivano marchiati con la lettera del nome o cognome dell’acquirente. La strada che conduce dalla reggia (ora museo) alla spiaggia è lunga quattro chilometri: è la strada che consegnava gli schiavi alle navi portoghesi. Per prima cosa si doveva arrivare a un grande baobab dove, bendati, le donne dovevano girare in circolo per sette volte e gli uomini per nove. Questo rito –attorno a quello che è stato chiamato l'albero dell'oblio– doveva servire a far perdere l'orientamento e dimenticare la propria vita precedente, evitando così la ribellione. A questo punto, uomini, donne e bambini venivano stipati per tre mesi. in un grande stanzone senza finestre, zomai (dove la luce non va). Era il tempo normalmente impiegato per la traversata e tale tortura serviva come prima selezione per stabilire chi avrebbe resistito. Chi moriva o si ammalava veniva gettato in una fossa comune e chi sopravviveva veniva fatto girare per tre volte attorno ad un altro baobab. Significava che una volta morto –in quel "laggiù" che ancora non conosceva– il suo spirito sarebbe ritornato. Era un omaggio alla propria tradizione, che venditori e venduti condividevano, e anche un modo per non incorrere nell’ira degli antenati. Infine, la partenza. Dalla spiaggia gli schiavi in catene venivano portati con battelli alle navi ferme nella rada e stipati nella stiva come sardine per un viaggio verso l’ignoto. Qualcuno, se ci riusciva, si gettava in mare prima, per morire pur di non affrontare un futuro sconosciuto che terrorizzava. Molte donne, durante la traversata, venivano violentate, altri morivano; la maggioranza di quelli che arrivarono non sarebbero più tornati, eppure la storia, i ricordi, i racconti, il dolore e a volte la rabbia, sono ancora vivissimi a Ouidah e in tutto il Bénin.
Altro che albero della dimenticanza… Tanti non sarebbero più tornati, è vero; non avrebbero riattraversato la Porta del Non Ritorno, ma molti dei loro discendenti sì, e sono quelli che non hanno dimenticato. Nell’anno giubilare del 2000 i cristiani hanno costruito la Porta del Perdono!
Sabato 5 e domenica 6 novembre: Ritorno a Cotonou con due notti nella struttura della Conferenza Episcopale Beninese (CEB) e preparazione dei bagagli. Siamo nuovamente, come all’arrivo, immersi nello smog del traffico caotico di questa città causato soprattutto dalle migliaia di motorini (i loro taxi). La mattinata trascorre nel mercato artigianale locale: oggetti artistici, semplici ma che attirano l’attenzione e sovvengono a qualche necessità di chi li ha creati.
Il pranzo è stato impreziosito dalla presenza di Grégoire e di un volontario, medico psichiatra del Canada. La testimonianza che Grégoire ci ha donato è sconvolgente: lo si potrebbe chiamare Paolo di Tarso. Cattolico, ma di fede tiepida se non indifferente, vede il Cristo in una donna considerata pazza e incatenata in terra con le braccia a forma di croce su cui si stavano facendo dei riti vudù. Da quell’istante la conversione e l’impegno a salvare questi ammalati, coinvolgendo tutta la sua famiglia. L’opera si è ampliata e diffusa; molti “ammalati” sono divenuti suoi collaboratori.
Lasciatolo con molta commozione ci si prepara alla partenza che avverrà verso Parigi alle ore 24, dove il gruppo si separerà per raggiungere la propria casa: Piemonte, Lombardia, Veneto e Trentino. Io, dopo sei ore di volo e la sosta, giungerò a Torino alle ore dieci del mattino di lunedì 7 novembre.
Che cambiamento? Di tutto: dal clima torrido e umido alla neve di Parigi; dai canti e le danze di accoglienza all’indifferenza di chi ci passa accanto; dalla povertà estrema al consumismo sbandierato come risorsa di benessere e di felicità…
Il souvenir lasciatomi e portato con me? Il sorriso di questo popolo poverissimo, mite e dignitoso, che non scompare mai dal loro volto anche nel dolore, e che mi rimarrà perennemente impresso nella mia mente e nel mio cuore!
Condivo con tutti voi la gioia di un piccolo dono, ma grande per il suo significato, con cui monsignor Eugène Cyrille Houndékon ha voluto omaggiarmi prima della mia partenza: la Giara del re Guézo.
La giara forata: stemma politico del Bénin. Eccone brevemente la storia: Lo stemma è stato scelto da re Ghézo (1818-1858) il quale volle che fosse una giara forata con diversi buchi, ben chiusi da altrettanti mani, ad esprimere un concetto fondamentale per il Paese e che afferma in maniera eloquente in queste parole: «La giara contiene l’acqua che donerà benessere al Paese. Se ogni figlio del nostro Paese chiudesse con le proprie dita i fori di questo vaso, l’acqua non uscirebbe e il Paese sarebbe salvo».
Il simbolo della giara quindi esprime una carica simbolica che veicola il messaggio di un dono, quello dell’acqua, che solo attraverso la custodia e il contributo di ciascun cittadino diventa fonte di vita e di benessere per tutto il Paese.
Si tratta di un messaggio, molto caro anche alla beata Chiara Badano, che richiama tutti i popoli all’unità e alla pace.
In seconda elementare, in un compitino a scuola, la piccola Chiara scrisse: «Io sogno i giorni in cui i figli degli schiavi e i figli dei loro padroni si siederanno insieme al tavolo della fraternità. Come Gesù con gli Apostoli. Sogno il giorno in cui i bambini e le bambine negre si terranno per mano con i bambini e le bambine bianche, come fratelli e sorelle».